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Premessa ………………………………………………………. » 9

Galileo mio Padre …………………………………………. » 11

Dalla lettera di Galileo Galilei ad Elia Diodati …… » 233

Cronologia dei principali avvenimenti della vita
di Galileo Galilei e di sua figlia Virginia,
in religione Suor Maria Celeste………………………….. » 235

 

Titolo

Luca Desiato

Galileo
mio padre

Romanzo

Effatà Editrice

Dedicato

A Marina

Citazioni

La verità è la cosa più sincera, più divina di
tutte… la quale né per violenza si toglie, né per
antiquità si corrompe, né per occultazione si
sminuisce, né per comunicazione si disperde:
perché senso non la confonde, tempo non l’arruga,
luogo non l’asconde, notte non l’interrompe,
tenebra non la vela; anzi, con essere più
e più impugnata, più e più risuscita e cresce.
Giordano Bruno,
Lo spaccio della bestia trionfante (II, 77)
…Ma per maggiormente regalarla gli mando
una rosa, la quale, come cosa straordinaria di
questa stagione dovrà da lei esser molto gradita,
e tanto più che insieme con la rosa potrà accettar
le spine, che in essa rappresentano l’acerba
passione del nostro Signore; e anco le sue verdi
frondi che significheranno la speranza, che
mediante questa santa passione possiamo avere,
di dover dopo la brevità ed oscurità dell’inverno
della vita presente pervenire alla chiarezza e felicità
dell’eterna primavera del cielo.
Dalla lettera di Suor Maria Celeste
a Galileo, del 19 dicembre 1625

Premessa

Le lettere conosciute erano ventisette. Fu Carlo Arduini nel lontano 1864 a scoprire nella Biblioteca Palatina di Firenze (oggi Biblioteca Nazionale) le restanti novantasette inviate al padre, Galileo Galilei, da Suor Maria Celeste sua figlia. Scritte tutte dal monastero delle Clarisse di San Matteo d’Arcetri, esse coprono il periodo che va dal 10 maggio 1623 al 10 dicembre 1633. Tali lettere si fanno più frequenti nel tempo tragico della condanna di Galileo da parte delle autorità della Chiesa. Il 2 aprile 1634, a trentatré anni, Suor Maria Celeste concluderà la sua breve vicenda terrena. Questo epistolario ci colpisce ancora oggi per la sua maturità, la dolcezza, l’accanita ricerca del vero e del giusto, l’assoluta mancanza di pietismo, l’orgogliosa coscienza della scrivente di essere figlia di tanto padre. Contemporanee, queste luminose lettere di Virginia-Suor Maria Celeste Galilei, alla tetra vicenda di perdizione di Suor Virginia de Leyva – la Monaca di Monza di manzoniana memoria. A detta dei contemporanei Galilei conservava gelosamente queste missive, e spesso le rileggeva. Sono purtroppo andate perdute quelle da lui inviate in risposta. A tali lettere, filo d’oro nel labirinto del tempo, si ispira la presente opera. Un doveroso omaggio a quella che ritengo una delle più belle vicende di tutti i tempi: un’appassionata storia di amor filiale.
L’autore

Monastero di San Matteo, addì 10 maggio 1623

Deve partire. Decisione spesso rimandata, ora indispensabile. A Roma sono molti ad attenderlo, per congratularsi, e discutere, ché la scienza ha i suoi rendiconti. Sullo spirare dello scorso anno fu stampata l’ultima sua fatica: Il Saggiatore, un trattato sui principi d’una scienza nuova che prese avvio dall’occasione di comete apparse negl’ultimi tempi a rigare il cielo. Dopo innumerevoli polemiche fra i dotti, il suo scritto giunge a una singolare conclusione: i cieli non sono più immutabili.
Padre mio, precipitoso e gagliardo, ora in triboli e spine. Un giorno decide assolutamente il viaggio, mentre il giorno dopo cambia disegno. Adesso teme il caldo, le piane assolate e i briganti di strada, ora smania di potersi confidare, trovare orecchi attenti, assortiti amici sotto una pergola d’antica vigna.
Ma teme la grande città papale, il traffico, l’assembramenti, la volubile moda e gli sghiribizzi de’ potenti. Tutte le volte che c’è stato, il suo è stato un ritorno amaro, sebbene n’abbia ottenuto una rinnovata voglia di battersi, ché le contrarietà lo rianimano. E splende, supponente e animoso, giovane al pari di chi s’immette per la prima volta nella mischia.
Ieri lo trovava sommamente opportuno, questo viaggio, e s’angustiava. Bagagli pronti, e libri in una sacca… allorché venne la luttuosa notizia. È mancata la zia Virginia, sua sorella, quella di cui portavo il nome.
Fu lei a offrirmi, generosità rimasta unica, parte della dote monacale, cinquanta fiorini, sgravando in parte il mio genitore.
Una malattia repentina l’ha colta nella sua triste vedovanza. Non la rimpiangerà alcuno. Benché quell’ultimo travaglio abbia coperto molta della sua trascuranza del prossimo. Dio sa trascolorare nella sua misericordia ogni vita ipocritamente austera. Siamo forestieri e viandanti, quaggiù, in cammino verso la vera patria.
Inaspettata, e grave, è stata la percossa per mio padre, lui che per ogni membro della famiglia, benché spinoso, ha delicatezze estreme.
Nella Villa Bellosguardo si riposava da fatiche speculative, carteggi con studiosi, ristampe di trattatelli sui galleggianti e la terrestre longitudine. Avrà giorni d’incorporeo malessere, mutismi, e scatti d’impazienza, ma dolci risalite di sentimento negl’occhi quando verrà a trovarmi, oh lo so che continuerà a venire, giornalmente, al nostro parlatorio: e per non far torto a Suor Arcangela, mia sorella, chiederà d’ambedue, ma è me che vorrà vedere, e alleggerirsi del peso che l’affanna. Nello stanzone in penombra, seduto sull’ampia seggiola di paglia (gliene fornisco sempre una particolarmente dura, ché soffre d’emorroidi) vedrà me, e m’ascolterà, senza darmi apparente importanza, io che, uno scapicollo per gli scalini all’annunzio della suora portinaia: «L’Eccellentissimo Signor Galilei!», sarò già ad attenderlo. Sempre infatti lo precedo, e mi faccio trovare dietro la grata a listelli sghembi. L’apro, col permesso della Reverenda Madre Superiora, ed entro nello stanzone del parlatorio, sedendomi davanti a lui, benché su una panca leggermente più bassa. Comincia a parlare. Voce roca, tosse, catarro, colpetti al petto, le dita a slargare il collare inamidato che l’opprime. «E che… padre, mi fate ancora la scena della mancanza di respiro?! Ecco qua la vostra chicca di zucchero d’orzo».
La tiro fuori dalla profonda tasca del saio, da un cartoccetto già preparato. Gli piacciono come li confezioniamo, quei quadruccetti, ben tostati e amarognoli che dissetano e calmano i cattivi umori. Domani, verrà a parlare della zia Virginia, e gli si faranno porporine le guance di collera, per quel suo lascito alla Confraternita della Madonna dell’Impruneta: la casetta ne’ paraggi di Firenze, con l’annesso orto e giardino pergolato, mentre era noi, sue nipoti monacelle che doveva beneficare. Tutti sanno come il nostro monastero non vive nella grascia.
«Arriva sempre un prete più svelto, colle sue mercanzie di promesse eterne a imbrogliare le carte, a far sì che le pinzochere agli estremi… Ma impugneremo la donazione, oh sì che l’impugneremo, se c’è giustizia nel Granducato!»… e i ricci brizzolati che gli incorniciano l’ampia fronte spenzoleranno indispettiti.
«Padre, questo è l’uso, ognuno alla sua anima manda avanti la beneficenza a farle strada. La carità copre una vita di noncuranze…».
«Ciò non toglie l’artifizio di chi, con santa ingordigia, fa accumulare dove non serve, come il vento in certi angoli le foglie».  Ma già gli si spianeranno le rughe della fronte, e cambierà argomento. Anzi, aspetterà che sia io a cambiarglielo, impercettibilmente. Son preparata, e sempre se l’aspetta, come un fanciullo viziato. Ama sentirmi raccontare le nuove del convento. Povere e semplici notizie che gli colorisco e moltiplico.
«L’orologio che m’avete regalato si comporta alla perfezione. Ci voleva proprio, quest’istrumento, per dare inizio esatto alle preghiere, al lavoro di cucito, ai pasti, alla ricreazione, alla pausa di sonno pomeridiano: mezz’ora è sufficiente adesso che siamo in maggio e la stagione riscalda, mentre la nostra collina è investita dalla calura di venti aperti e insistiti. Suor Arcangela vi ringrazia della coperta leggera di cotone che si tira sui piedi nella seconda parte della notte, quando rinfresca; pochi minuti le bastano, prima della campanella della sveglia, ad assaporare quel peccatuccio di comodità che dovrà poi confessare… Suor Violante è sempre lunatica e smunta. Non sta bene di nervi, la consorella, e i salmi del Mattutino ora li canta un’ottava sopra, ora li biascica, col gusto discorde di saggiare la nostra pazienza… Sono già stirati e inamidati i collari, i fazzoletti e i polsini, li insudiciate con allegria, padre, tanto son qui le vostre figliole che lavano e stirano…».
«Ci lavoro, aggiusto attrezzi e marchingegni. Mi scordo sempre di togliermeli… I fazzoletti, quelli li fate finissimi e ricamati, mentre mussola pesante ci vorrebbe per mandar via il sudore…Ma prometto, da domani, di togliermeli ogni volta, quell’orpelli, e usare il grembiale da lavoro».
Tanto, non mantiene mai la promessa. È disordinato, e arruffone.
Quando un’idea lo perseguita, afferra la penna d’oca, l’intigne nel calamaio, scricchia svelto sulla carta, e spruzza a benedicat macchie d’impaziente inchiostro. Ma non c’è di che lamentarsi. All’età sua di sessant’anni, molti che vivono come lui solitari risultano peggiori impiastri.
«Sì, da domani. Dite sempre “da domani”, ma vi conosco, ormai, ché fate come il gallo maggiore che canta bene ma ruspa assai male».
Allora sorriderà. Un’increspata sottile sotto i baffi, il lampo vivido dell’occhio. «Buona, la stagione», svicolerò compiaciuta, «questo maggio è stato tutto una fiorita di rose, e gli uccelli, se non si fa presto a cogliere, ci si tuffano a spampanarle. La cappella son giorni che galleggia in un’espansa nuvola di profumo».
Fine conoscitore, e acuto, comincerà a distinguermi le razze di rose da lui stesso piantate nel nostro giardino; me ne catalogherà l’essenza, diversità per diversità: impetuosa, soave, vellutata, aspra, o stravagante. Puntiglioso com’è. Ma non gli darò soddisfazione.
M’alzerò lentamente, come sovrappensiero, e mentre parla andrò a cogliere dietro la grata il cestello appostato in precedenza su mio ordine dalla suora conversa, per metà pieno di pescetti di marzapane, ghiottonizia che sempre lo lusinga. «Ieri pomeriggio ho allungato la ricreazione, e mi sono affaccendata attorno al forno a legna. Credo tuttavia che sian riusciti poco morbidi. Lasciateci attorno la carta oleata, e inzuppateli la mattina nel latte, mi raccomando, e non la sera nel vino, ché di quello per la vostra età ne bevete già a sufficienza, e state poi sempre a lamentarvi d’arsura e di brucior di stomaco».

Addì 13 maggio 1623

Ogni essere umano, agitato da infinite forze, può gustare una maturità adolescente, purché testimoni un amore violento per la vita. Nacqui a Padova, ventitré anni fa, da Marina Gamba, donna del popolo che mio padre conobbe in quella città, sistemò decorosamente a Venezia, e benché vivesse con lei more uxorio, avendo me come primogenita d’altri due fratelli: Livia e Vincenzo, non volle mai sposare.

«A dì 21 agosto 1600, Virginia, figliuola di Marina da Venetia, nata di fornicatione li 13 detto, fu battezzata da me Giovanni Viola: fu compare messer Bartolamio de ser Domenego Mazo fiorentino, fattor delli clarissimi Contarini dal Scrigno…». Così l’atto del mio battesimo nella parrocchia padovana di San Lorenzo.

Mia madre, una volta trasferitici nella città serenissima, me la ricordo avvenente e altera, di sfrontata grazia, azzurra d’occhi e corvina di capelli, orgogliosa d’essere il rifugio del riverito e collerico compagno. S’occupava della casa, e non furono mai stamberghe ma decorose e ben asciutte dimore, sempre al piano rialzato, tutt’al più con sotto una bottega d’orefice, o un fondaco di mercante di stoffe.

Ci lustrava e ripuliva, me e i fratelli, e cantava a piena voce certe canzoni d’amore in voga, quand’era il momento di far dispetto a vicine ficcanase, turbate dalla sua serena vita di peccatrice. Mai ne ebbi rimbrotti, o busse. Spesso baci mordenti che lasciavano il segno. «Virginia, fatti valere», e mi pettinava a treccia la fluente capellatura bionda.

Precoce lo sono sempre stata, e sapevo ben distinguere le gallozzole dalle noci, la precarietà, la diversa vita segnata a dito, il pianto notturno di mia madre, la sua riconoscenza messa alla prova dagl’invaghimenti del sensuale compagno: cortigiane dal naso sottile, la pronunzia blesa, collane di perle sull’altezzoso petto, in quella Venezia marmorea, bucintoro di raffinati stravizi.
Ma se un cruccio vi fu, nella mia infanzia, fu il dover sostenere l’ardita preferenza di mio padre, che a me donava la miglior pupazza vestita da gran dama, a me i nastri cangianti di seta, o i pomi di primizia. E m’accorgevo d’avere dietro gli occhi mortificati de’ fratellini, pur ammaestrati dalla madre ad essere fieri, accettando dal grande genitore ogni favore, o ripulsa, con orgoglio d’illegittima esistenza.

Venezia, porto del golfo Adriatico, ventre d’Europa… Un parlare degli adulti sempre di commercio, e del denaro investito. L’assillo del guadagno, e la diffidenza. Quant’adorazione per quell’oro: suprema garanzia del vivere, fissazione d’ingorda esistenza.
«Senza denaro non si può fare operazione alcuna che buona sia»…

L’avidità, inculcata già nei fanciulli, e non v’era gioco: di palla, ruzzola, o dadi che non comportasse lucro o baratto. Città avara nel dare, allupata nell’esigere. Ma le sue feste erano sontuose. Lo scialo di cerimonie, spettacolo che ci faceva restare a bocca aperta, e mia madre, la sua invidia per quelle donne in parata, acconce, dalla spiritosaggine acuta. Le nemiche da cui guardarsi.
Ma Venezia era anche impugnato senso della libertà. E lo dimostrò a suo tempo. Ricordo i giorni dell’interdetto.

Nella città sconsacrata dai fulmini di Roma, bollata come «la nuova Ginevra», timorosa per un probabile intervento degli spagnoli papalini, non v’era suono di campane, né processioni, né sacramenti. Serrate le chiese, si andava alla chetichella la mattina presto in una cappella di francescani o di serviti, tenuta aperta d’autorità, per sentire una Messa quasi clandestina.

Tutti parlavano con ammirazione di Fra’ Paolo Sarpi, il teologo che mio padre frequentava nel negozio di Bernardo Sechini all’insegna della Nave d’Oro, crocevia di notizie e febbrili discussioni.

Fu in quel luogo che conobbe e si legò d’amicizia con Gianfrancesco Sagredo, illustre gentiluomo e ricchissimo patrizio. Il Sarpi, una volta lo vidi anch’io sfiammeggiare sul pulpito; predicò a lungo, indispettito. E nei miei orecchi di bambina rimase l’invettiva sua contro il potere, «certo potere» che, da luogo dello spirito, si fa gravame alle coscienze e politica minaccia.
Mia madre disse ch’era in atto una scommessa con la Sede Apostolica. Come ci godeva, a tali turbolenze, lei donna temeraria! Sempre le è stato congeniale il gusto del rischio, il bastian contrario de’ padovani. E la Serenissima la spuntò con Roma. Il Papa non riuscì a farsi consegnare il Sarpi. Una spina che è durata a lungo.

Virginia, Livia… mio padre ci mise i nomi delle sue sorelle.
Vincenzo, invece, rinnova il nome di suo padre. Non vi fu rottura improvvisa con l’inquieta e umbratile Marina.

Piuttosto, una lenta consunzione dell’amore che, da fuoco vivo, divenne prima un sopportare, indi abitudine, infine occulto disagio man mano che lui saliva nella stima sociale.
Incostanti, le passioni umane. Il malessere, o l’amaro sogno, rubano con sottilità quanto dovuto. Ma non si odiarono. Né mia madre infierì contro l’Eccellentissimo Galileo Galilei, divenuto Primo Matematico del Granduca di Toscana. Lei rimase a Venezia, e si sposò, finalmente in chiesa, con certo Giovanni Bartoluzzi, intendente di casa Dolfin.