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Addì 13 maggio 1623

Ogni essere umano, agitato da infinite forze, può gustare una maturità adolescente, purché testimoni un amore violento per la vita. Nacqui a Padova, ventitré anni fa, da Marina Gamba, donna del popolo che mio padre conobbe in quella città, sistemò decorosamente a Venezia, e benché vivesse con lei more uxorio, avendo me come primogenita d’altri due fratelli: Livia e Vincenzo, non volle mai sposare.

«A dì 21 agosto 1600, Virginia, figliuola di Marina da Venetia, nata di fornicatione li 13 detto, fu battezzata da me Giovanni Viola: fu compare messer Bartolamio de ser Domenego Mazo fiorentino, fattor delli clarissimi Contarini dal Scrigno…». Così l’atto del mio battesimo nella parrocchia padovana di San Lorenzo.

Mia madre, una volta trasferitici nella città serenissima, me la ricordo avvenente e altera, di sfrontata grazia, azzurra d’occhi e corvina di capelli, orgogliosa d’essere il rifugio del riverito e collerico compagno. S’occupava della casa, e non furono mai stamberghe ma decorose e ben asciutte dimore, sempre al piano rialzato, tutt’al più con sotto una bottega d’orefice, o un fondaco di mercante di stoffe.

Ci lustrava e ripuliva, me e i fratelli, e cantava a piena voce certe canzoni d’amore in voga, quand’era il momento di far dispetto a vicine ficcanase, turbate dalla sua serena vita di peccatrice. Mai ne ebbi rimbrotti, o busse. Spesso baci mordenti che lasciavano il segno. «Virginia, fatti valere», e mi pettinava a treccia la fluente capellatura bionda.

Precoce lo sono sempre stata, e sapevo ben distinguere le gallozzole dalle noci, la precarietà, la diversa vita segnata a dito, il pianto notturno di mia madre, la sua riconoscenza messa alla prova dagl’invaghimenti del sensuale compagno: cortigiane dal naso sottile, la pronunzia blesa, collane di perle sull’altezzoso petto, in quella Venezia marmorea, bucintoro di raffinati stravizi.
Ma se un cruccio vi fu, nella mia infanzia, fu il dover sostenere l’ardita preferenza di mio padre, che a me donava la miglior pupazza vestita da gran dama, a me i nastri cangianti di seta, o i pomi di primizia. E m’accorgevo d’avere dietro gli occhi mortificati de’ fratellini, pur ammaestrati dalla madre ad essere fieri, accettando dal grande genitore ogni favore, o ripulsa, con orgoglio d’illegittima esistenza.

Venezia, porto del golfo Adriatico, ventre d’Europa… Un parlare degli adulti sempre di commercio, e del denaro investito. L’assillo del guadagno, e la diffidenza. Quant’adorazione per quell’oro: suprema garanzia del vivere, fissazione d’ingorda esistenza.
«Senza denaro non si può fare operazione alcuna che buona sia»…

L’avidità, inculcata già nei fanciulli, e non v’era gioco: di palla, ruzzola, o dadi che non comportasse lucro o baratto. Città avara nel dare, allupata nell’esigere. Ma le sue feste erano sontuose. Lo scialo di cerimonie, spettacolo che ci faceva restare a bocca aperta, e mia madre, la sua invidia per quelle donne in parata, acconce, dalla spiritosaggine acuta. Le nemiche da cui guardarsi.
Ma Venezia era anche impugnato senso della libertà. E lo dimostrò a suo tempo. Ricordo i giorni dell’interdetto.

Nella città sconsacrata dai fulmini di Roma, bollata come «la nuova Ginevra», timorosa per un probabile intervento degli spagnoli papalini, non v’era suono di campane, né processioni, né sacramenti. Serrate le chiese, si andava alla chetichella la mattina presto in una cappella di francescani o di serviti, tenuta aperta d’autorità, per sentire una Messa quasi clandestina.

Tutti parlavano con ammirazione di Fra’ Paolo Sarpi, il teologo che mio padre frequentava nel negozio di Bernardo Sechini all’insegna della Nave d’Oro, crocevia di notizie e febbrili discussioni.

Fu in quel luogo che conobbe e si legò d’amicizia con Gianfrancesco Sagredo, illustre gentiluomo e ricchissimo patrizio. Il Sarpi, una volta lo vidi anch’io sfiammeggiare sul pulpito; predicò a lungo, indispettito. E nei miei orecchi di bambina rimase l’invettiva sua contro il potere, «certo potere» che, da luogo dello spirito, si fa gravame alle coscienze e politica minaccia.
Mia madre disse ch’era in atto una scommessa con la Sede Apostolica. Come ci godeva, a tali turbolenze, lei donna temeraria! Sempre le è stato congeniale il gusto del rischio, il bastian contrario de’ padovani. E la Serenissima la spuntò con Roma. Il Papa non riuscì a farsi consegnare il Sarpi. Una spina che è durata a lungo.

Virginia, Livia… mio padre ci mise i nomi delle sue sorelle.
Vincenzo, invece, rinnova il nome di suo padre. Non vi fu rottura improvvisa con l’inquieta e umbratile Marina.

Piuttosto, una lenta consunzione dell’amore che, da fuoco vivo, divenne prima un sopportare, indi abitudine, infine occulto disagio man mano che lui saliva nella stima sociale.
Incostanti, le passioni umane. Il malessere, o l’amaro sogno, rubano con sottilità quanto dovuto. Ma non si odiarono. Né mia madre infierì contro l’Eccellentissimo Galileo Galilei, divenuto Primo Matematico del Granduca di Toscana. Lei rimase a Venezia, e si sposò, finalmente in chiesa, con certo Giovanni Bartoluzzi, intendente di casa Dolfin.

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