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Monastero di San Matteo, addì 10 maggio 1623

Deve partire. Decisione spesso rimandata, ora indispensabile. A Roma sono molti ad attenderlo, per congratularsi, e discutere, ché la scienza ha i suoi rendiconti. Sullo spirare dello scorso anno fu stampata l’ultima sua fatica: Il Saggiatore, un trattato sui principi d’una scienza nuova che prese avvio dall’occasione di comete apparse negl’ultimi tempi a rigare il cielo. Dopo innumerevoli polemiche fra i dotti, il suo scritto giunge a una singolare conclusione: i cieli non sono più immutabili.
Padre mio, precipitoso e gagliardo, ora in triboli e spine. Un giorno decide assolutamente il viaggio, mentre il giorno dopo cambia disegno. Adesso teme il caldo, le piane assolate e i briganti di strada, ora smania di potersi confidare, trovare orecchi attenti, assortiti amici sotto una pergola d’antica vigna.
Ma teme la grande città papale, il traffico, l’assembramenti, la volubile moda e gli sghiribizzi de’ potenti. Tutte le volte che c’è stato, il suo è stato un ritorno amaro, sebbene n’abbia ottenuto una rinnovata voglia di battersi, ché le contrarietà lo rianimano. E splende, supponente e animoso, giovane al pari di chi s’immette per la prima volta nella mischia.
Ieri lo trovava sommamente opportuno, questo viaggio, e s’angustiava. Bagagli pronti, e libri in una sacca… allorché venne la luttuosa notizia. È mancata la zia Virginia, sua sorella, quella di cui portavo il nome.
Fu lei a offrirmi, generosità rimasta unica, parte della dote monacale, cinquanta fiorini, sgravando in parte il mio genitore.
Una malattia repentina l’ha colta nella sua triste vedovanza. Non la rimpiangerà alcuno. Benché quell’ultimo travaglio abbia coperto molta della sua trascuranza del prossimo. Dio sa trascolorare nella sua misericordia ogni vita ipocritamente austera. Siamo forestieri e viandanti, quaggiù, in cammino verso la vera patria.
Inaspettata, e grave, è stata la percossa per mio padre, lui che per ogni membro della famiglia, benché spinoso, ha delicatezze estreme.
Nella Villa Bellosguardo si riposava da fatiche speculative, carteggi con studiosi, ristampe di trattatelli sui galleggianti e la terrestre longitudine. Avrà giorni d’incorporeo malessere, mutismi, e scatti d’impazienza, ma dolci risalite di sentimento negl’occhi quando verrà a trovarmi, oh lo so che continuerà a venire, giornalmente, al nostro parlatorio: e per non far torto a Suor Arcangela, mia sorella, chiederà d’ambedue, ma è me che vorrà vedere, e alleggerirsi del peso che l’affanna. Nello stanzone in penombra, seduto sull’ampia seggiola di paglia (gliene fornisco sempre una particolarmente dura, ché soffre d’emorroidi) vedrà me, e m’ascolterà, senza darmi apparente importanza, io che, uno scapicollo per gli scalini all’annunzio della suora portinaia: «L’Eccellentissimo Signor Galilei!», sarò già ad attenderlo. Sempre infatti lo precedo, e mi faccio trovare dietro la grata a listelli sghembi. L’apro, col permesso della Reverenda Madre Superiora, ed entro nello stanzone del parlatorio, sedendomi davanti a lui, benché su una panca leggermente più bassa. Comincia a parlare. Voce roca, tosse, catarro, colpetti al petto, le dita a slargare il collare inamidato che l’opprime. «E che… padre, mi fate ancora la scena della mancanza di respiro?! Ecco qua la vostra chicca di zucchero d’orzo».
La tiro fuori dalla profonda tasca del saio, da un cartoccetto già preparato. Gli piacciono come li confezioniamo, quei quadruccetti, ben tostati e amarognoli che dissetano e calmano i cattivi umori. Domani, verrà a parlare della zia Virginia, e gli si faranno porporine le guance di collera, per quel suo lascito alla Confraternita della Madonna dell’Impruneta: la casetta ne’ paraggi di Firenze, con l’annesso orto e giardino pergolato, mentre era noi, sue nipoti monacelle che doveva beneficare. Tutti sanno come il nostro monastero non vive nella grascia.
«Arriva sempre un prete più svelto, colle sue mercanzie di promesse eterne a imbrogliare le carte, a far sì che le pinzochere agli estremi… Ma impugneremo la donazione, oh sì che l’impugneremo, se c’è giustizia nel Granducato!»… e i ricci brizzolati che gli incorniciano l’ampia fronte spenzoleranno indispettiti.
«Padre, questo è l’uso, ognuno alla sua anima manda avanti la beneficenza a farle strada. La carità copre una vita di noncuranze…».
«Ciò non toglie l’artifizio di chi, con santa ingordigia, fa accumulare dove non serve, come il vento in certi angoli le foglie».  Ma già gli si spianeranno le rughe della fronte, e cambierà argomento. Anzi, aspetterà che sia io a cambiarglielo, impercettibilmente. Son preparata, e sempre se l’aspetta, come un fanciullo viziato. Ama sentirmi raccontare le nuove del convento. Povere e semplici notizie che gli colorisco e moltiplico.
«L’orologio che m’avete regalato si comporta alla perfezione. Ci voleva proprio, quest’istrumento, per dare inizio esatto alle preghiere, al lavoro di cucito, ai pasti, alla ricreazione, alla pausa di sonno pomeridiano: mezz’ora è sufficiente adesso che siamo in maggio e la stagione riscalda, mentre la nostra collina è investita dalla calura di venti aperti e insistiti. Suor Arcangela vi ringrazia della coperta leggera di cotone che si tira sui piedi nella seconda parte della notte, quando rinfresca; pochi minuti le bastano, prima della campanella della sveglia, ad assaporare quel peccatuccio di comodità che dovrà poi confessare… Suor Violante è sempre lunatica e smunta. Non sta bene di nervi, la consorella, e i salmi del Mattutino ora li canta un’ottava sopra, ora li biascica, col gusto discorde di saggiare la nostra pazienza… Sono già stirati e inamidati i collari, i fazzoletti e i polsini, li insudiciate con allegria, padre, tanto son qui le vostre figliole che lavano e stirano…».
«Ci lavoro, aggiusto attrezzi e marchingegni. Mi scordo sempre di togliermeli… I fazzoletti, quelli li fate finissimi e ricamati, mentre mussola pesante ci vorrebbe per mandar via il sudore…Ma prometto, da domani, di togliermeli ogni volta, quell’orpelli, e usare il grembiale da lavoro».
Tanto, non mantiene mai la promessa. È disordinato, e arruffone.
Quando un’idea lo perseguita, afferra la penna d’oca, l’intigne nel calamaio, scricchia svelto sulla carta, e spruzza a benedicat macchie d’impaziente inchiostro. Ma non c’è di che lamentarsi. All’età sua di sessant’anni, molti che vivono come lui solitari risultano peggiori impiastri.
«Sì, da domani. Dite sempre “da domani”, ma vi conosco, ormai, ché fate come il gallo maggiore che canta bene ma ruspa assai male».
Allora sorriderà. Un’increspata sottile sotto i baffi, il lampo vivido dell’occhio. «Buona, la stagione», svicolerò compiaciuta, «questo maggio è stato tutto una fiorita di rose, e gli uccelli, se non si fa presto a cogliere, ci si tuffano a spampanarle. La cappella son giorni che galleggia in un’espansa nuvola di profumo».
Fine conoscitore, e acuto, comincerà a distinguermi le razze di rose da lui stesso piantate nel nostro giardino; me ne catalogherà l’essenza, diversità per diversità: impetuosa, soave, vellutata, aspra, o stravagante. Puntiglioso com’è. Ma non gli darò soddisfazione.
M’alzerò lentamente, come sovrappensiero, e mentre parla andrò a cogliere dietro la grata il cestello appostato in precedenza su mio ordine dalla suora conversa, per metà pieno di pescetti di marzapane, ghiottonizia che sempre lo lusinga. «Ieri pomeriggio ho allungato la ricreazione, e mi sono affaccendata attorno al forno a legna. Credo tuttavia che sian riusciti poco morbidi. Lasciateci attorno la carta oleata, e inzuppateli la mattina nel latte, mi raccomando, e non la sera nel vino, ché di quello per la vostra età ne bevete già a sufficienza, e state poi sempre a lamentarvi d’arsura e di brucior di stomaco».
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